È morto sabato 2 marzo, sconfitto da un tumore a soli 58 anni, Yannis Berhakis, fotogiornalista che ha raccontato la storia dell’Europa e del Medioriente degli ultimi 30 anni.
Seguiteci, vi raccontiamo oggi l’uomo che ha riconosciuto il potere della fotografia di catturare – con immagini crude, a volte dolorose – l’attenzione delle persone, e persino la forza di cambiare il loro comportamento.
“La mia missione è raccontare la storia e poi sta a voi decidere cosa fare”

Il fotografo dei Rifugiati
Conosciuto come “il fotografo dei Rifugiati”, sin dall’inizio della sua carriera fotogiornalistica Yannis Behrakis ha raccontato la vita dei profughi.
Le sue immagini hanno squarciato il velo dell’ipocrisia occidentale: sono istantanee tragicamente quotidiane, portali aperti sulla diaspora di migliaia di rifugiati che, proprio a causa della crisi e delle guerre, si riversano sull’Europa.
Per questo lavoro, nel 2016 insieme allo Staff Reuters vince il Premio Pulitzer:
“Per avvincenti fotografie, ognuna con la propria voce, che segue i rifugiati migranti a centinaia di miglia attraverso confini incerti verso destinazioni sconosciute.”

Come nasce un Fotoreporter
Yannis Berhakis, greco, classe 1960, si appassiona di fotografia sin da giovane: segue un corso di fotografia privato per apprendere le basi per poi lavorare qualche anno in uno studio fotografico.
Nel 1983 la svolta: assiste alla proiezione del film “Sotto Tiro” (Under Fire in inglese), la storia di un gruppo di giornalisti che si ritrovano coinvolti e testimoni nella rivoluzione civile in Nicaragua del 1979. Decide che il fotogiornalismo è il suo futuro.
Lascia lo studio fotografico e nel 1987 inizia a lavorare in Reuters come Freelance, lavoro che lo porterà a realizzare grandi servizi in Europa, Russia, Medio Oriente, Africa ed Asia.
La sua profonda empatia e la rara abilità nel trovare la bellezza anche in mezzo alle atrocità della vita, unite alla sua capacità di riuscire ad essere sempre nel cuore delle azioni gli valgono il riconoscimento e la stima unanime di colleghi e concorrenti.
“La mia missione è essere sicuro che nessuno possa dire: ‘Io non sapevo'”
Appassionato, vitale, generoso con le persone e con la vita, Yannis Behrakis ha una missione: testimoniare la cruda realtà delle zone di conflitto e farlo nel modo più sincero ed intenso possibile, affinché nessuno possa dire “Io non sapevo”.
È il 1988: nella ex Yugoslavia un uomo di etnia albanese adagia in una piccola bara il corpo di un bambino di soli 2 anni ucciso durante i combattimenti.

“L’immagine era molto forte ed il corpo del bambino fluttuava nell’aria.
Sembrava quasi che lo spirito del bambino lasciasse il suo corpo per i cieli”
Essere un Fotoreporter di guerra
Nel 2000 è in Sierra Leone insieme ai suoi 3 colleghi della Reuters conosciuti a Sarajevo a metà degli anni 90. Si considerano come 4 fratelli: Yannis Berhakis, Kurt Schork, Mark Chisholm e Miguel Gil Moreno.
Nella giungla cadono in un’imboscata: uomini armati, forse ribelli fanno fuoco contro il loro convoglio.
Behrakis e Chisholm si salvano correndo per ore nella boscaglia, mentre Schork e Moreno rimangono uccisi.
È in quel momento, dopo aver strisciato nella giungla, mentre pensa che le guardie lo cattureranno ed uccideranno anche lui come i suoi amici, che scatta un’immagine memorabile: la fotografia di se stesso, un fantasma che cerca di dare un senso a quanto appena successo.

Questa tragica esperienza lo porta ad una decisione irremovibile, lo deve agli amici morti, lo deve a tutti coloro che non hanno una voce abbastanza forte da farsi udire lontano: decide che il suo lavoro sarà la fotografia di guerra, l’apoteosi del fotogiornalismo.
I supereroi esistono, dopotutto
Il Fotografo dei Rifugiati è costante testimone della situazione oramai insostenibile nelle località di frontiera, tra fili spinati erti a muro e barriera con l’Europa, gommoni che imbarcano acqua e persone allo stesso modo, visi provati in cui non si spengono bagliori di speranza.
È in questa realtà, fatta di notti insonni ed incubi ricorrenti che nel 2015 scatta una delle immagini più iconiche di questo esodo: un rifugiato siriano trasporta stretta tra le braccia la figlia sotto la pioggia mentre la bacia.
“Mi sarebbe piaciuto essere quel padre; penso che ogni figlio amerebbe avere un padre così. Questa fotografia prova che i supereroi esistono, dopotutto.
Non indossava un mantello rosso, ma un mantello nero di plastica fatto con i sacchi dell’immondizia.
Per me questa foto è la rappresentazione universale dell’essere padre e l’amore incondizionato di un padre verso la figlia”
È con questa immagine che vogliamo salutarlo, il Fotografo dei Rifugiati, il fotografo che in 30 anni di carriera ha saputo raccontare le storie degli ultimi, di coloro che hanno dovuto lasciare le loro case, sradicati a forza dalla loro terra di guerra e fame.
È con questa frase che noi vogliamo salutarlo: “Noi ora sappiamo”.